domenica 4 dicembre 2016

Alla mensa dei poveri



Nel giorno 17, del mese di aprile, dell’anno del Signore 2000, iniziai a lavorare a Mestre.

Per la pausa pranzo, usufruivo di una mensa aziendale nei pressi dell’ufficio.

L’ambiente era decoroso, semplice, forse un po’ spartano.

Scegliendo tra le pietanze proposte, trovavo sempre qualcosa di gradito; al venerdì pure “le capesante al forno”, anche se i maligni e le malelingue dicevano fossero volgari “canestrei”.

Il rapporto qualità prezzo era buono.

Ciò premesso, nel mio ambiente di lavoro la mensa in oggetto godeva di apprezzamenti diametralmente opposti: per qualche collega era quanto di meglio si poteva trovare, per altri era un ambiente da evitare, quasi fosse un ricettacolo di brutte malattie.

Da parte mia mi collocavo in un piano leggermente diverso dalle valutazioni altrui e, ironicamente, la definivo “la mensa dei poveri”.

Tornato a casa, la moglie mi chiedeva, al fine di tarare sotto il profilo nutrizionale le proposte della cena, dove e come avessi pranzato. 
Immediata la risposta, semplice e sempre la stessa: sono andato “alla mensa del poveri”!

La moglie annuiva, sorrideva e si attivava per preparare la cena.

Mia figlia era piccolina e non riusciva a cogliere l’ironia contenuta nelle mie risposte. Non ho idea di cosa poteva frullare nella sua testolina e nella sua peggiore immaginazione.

Una sera,  approfittando della mia assenza, chiesa a mia moglie: “Mamma, perché papà va sempre alla mensa dei poveri, non può andare anche lui alla mensa dei ricchi?”


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