Nel giorno 17, del mese di aprile, dell’anno del
Signore 2000, iniziai a lavorare a Mestre.
Per la pausa pranzo, usufruivo di una mensa
aziendale nei pressi dell’ufficio.
L’ambiente era decoroso, semplice, forse un po’
spartano.
Scegliendo tra le pietanze proposte, trovavo sempre
qualcosa di gradito; al venerdì pure “le capesante al forno”, anche se i
maligni e le malelingue dicevano fossero volgari “canestrei”.
Il rapporto qualità prezzo era buono.
Ciò premesso, nel mio ambiente di lavoro la mensa
in oggetto godeva di apprezzamenti diametralmente opposti: per qualche collega
era quanto di meglio si poteva trovare, per altri era un ambiente da evitare,
quasi fosse un ricettacolo di brutte malattie.
Da parte mia mi collocavo in un piano leggermente
diverso dalle valutazioni altrui e, ironicamente, la definivo “la mensa dei
poveri”.
Tornato a casa, la moglie mi chiedeva, al fine di tarare
sotto il profilo nutrizionale le proposte della cena, dove e come avessi
pranzato.
Immediata la risposta, semplice e sempre la stessa:
sono andato “alla mensa del poveri”!
La moglie annuiva, sorrideva e si attivava per
preparare la cena.
Mia figlia era piccolina e non riusciva a cogliere
l’ironia contenuta nelle mie risposte. Non ho idea di cosa poteva frullare
nella sua testolina e nella sua peggiore immaginazione.
Una sera,
approfittando della mia assenza, chiesa a mia moglie: “Mamma,
perché papà va sempre alla mensa dei poveri, non può andare anche lui alla
mensa dei ricchi?”
Nessun commento:
Posta un commento